“SE TUTTE LE CITTA’ AVESSERO FATTO COME SARZANA IL FASCISMO NON SAREBBE PASSATO” Sandro Pertini
di Giorgio Pagano da Città della Spezia
Il sindaco Ponzanelli e Giorgio Pagano durante la tavola rotonda sui Fatti
I “Fatti di Sarzana” hanno un’origine complessa, che va ben oltre
Sarzana e risale a ben prima del 1921: l’origine è nella prima guerra
mondiale. La guerra fu la levatrice del sommovimento che decretò la fine
dello Stato liberale: crisi economica e sociale, classe dirigente
giolittiana incapace di riforme, aggravamento del distacco tra Stato e
società civile.
Fu una “rivoluzione della politica”, secondo una
definizione dello storico Emilio Gentile, dalla quale emersero due
realtà completamente nuove rispetto al mondo politico predominante fino
al 1914, opposte tra loro: il movimento rivoluzionario del socialismo,
che si sviluppa con caratteri nuovi e inediti con la rivoluzione
bolscevica (anche il PSI vuole “fare come in Russia”) e il movimento
rivoluzionario opposto, che afferma il mito e il primato della Nazione.
Un movimento rivoluzionario, quest’ultimo, da tutti sottovalutato.
Nel
1921 non vi era più alcuna seria minaccia della sinistra rivoluzionaria
contro lo Stato liberale. La sconfitta delle occupazioni delle
fabbriche nel settembre-ottobre 1920 aveva segnato l’esaurimento della
spinta operaia.
Fu l’altra rivoluzione a vincere. La grande domanda
è: perché in soli tre anni un movimento inizialmente marginale poté
giungere alla “fascistizzazione dello Stato”?
Nel 1919 Mussolini
aveva ancora scarso seguito. Poi si rafforzò grazie all’appoggio degli
agrari e degli industriali. Ma questo elemento non basta da solo a
spiegare l’avanzata del fascismo.
La si spiega con la violenza, suo
elemento identitario, e con l’impunità di questa violenza da parte degli
apparati dello Stato. A Sarzana fu in primo luogo il capitano dei
carabinieri Jurgens a respingere i fascisti: ma fu un’eccezione.
La si spiega con l’incapacità della classe dirigente liberale di fare riforme, e anche mediazioni.
La
si spiega con l’incapacità dei socialisti sia a fare la rivoluzione sia
a fare le riforme: i rivoluzionari non fecero i rivoluzionari, i
riformisti non fecero i riformisti. Gli arditi del popolo furono
abbandonati a loro stessi, perché i socialisti non volevano competere
sul piano militare; ma da parte socialista non fu sviluppata, d’altro
canto, nemmeno una politica di alleanze politiche con i popolari. Nel
Psi vi fu una totale assenza di politica. Il Sindaco socialista di
Sarzana Arnaldo Terzi, con la sua iniziativa di costituire, di fronte
all’attacco fascista, un Comitato di difesa proletaria, fu anch’egli
un’eccezione.
La si spiega con il settarismo del piccolo partito
comunista appena costituito: sarà Gramsci nei Quaderni a riflettere
sulla sconfitta e ad elaborare la strategia della “guerra di posizione” e
della conquista dell’”egemonia” nella democrazia. La partecipazione dei
comunisti sarzanesi al Comitato di difesa proletaria e agli arditi del
popolo fu anch’essa un’eccezione.
La si spiega con l’assenza
dell’unità antifascista, che mancò sempre, continuamente, anche di
fronte ai momenti più decisivi della scalata fascista. Perché tutte le
forze antifasciste sottovalutarono il fascismo e il suo carattere
totalitario. Sarzana non lo fece e fu un’eccezione.
La si spiega,
infine, con la notevole abilità di Mussolini: fu nel contempo salvatore e
seppellitore dello Stato, capo del fascismo “rispettabile” e di quello
squadrista. Dopo i “Fatti di Sarzana” Mussolini fece la mossa del patto
di pacificazione con i socialisti. Tutto fu accelerato in questa
direzione. Ci fu la rivolta dei fasci contro il patto, che comunque
Mussolini non rispettò. Per restare in Liguria, a Savona, nei giorni
della firma del patto l’ufficiale genovese Amilcare Dupanloup assunse il
comando dei fascisti, invase il Comune rosso e devastò tutta la città,
Camera del Lavoro in primis. Mussolini seppe ricomporre il suo partito,
ormai militarizzato. Convinto o meno che ne fosse, si convertì al
“partito milizia”. Il Presidente del Consiglio Bonomi gettò la spugna.
La crisi si avviava verso la conclusione, con la vittoria del fascismo.
Anche a Sarzana: il Sindaco Terzi si dimise, il 30 luglio 1922 si tenne
una grande manifestazione fascista, i fascisti stravinsero le elezioni
amministrative del 1923.
Ripetiamolo: nel luglio 1921 Sarzana
costituì, in questo scenario, un’eccezione. Certamente fu un episodio,
poi travolto nella sconfitta generale. Ma “se tutte le città d’Italia
-disse il Presidente della Repubblica Sandro Pertini- avessero fatto
come Sarzana, il fascismo non sarebbe passato”.
Facciamo un piccolo passo indietro.
Ancora
nella primavera del 1921 Sarzana era immune dai fascisti. Alle elezioni
amministrative di maggio il Psi aveva avuto il 47% dei voti, il PCI il
13%. La Liguria era, per i fascisti, una nota dolente: sia per la forza
dei “sovversivi” sia per l’atteggiamento delle autorità, che conducevano
direttamente la repressione senza delegarla allo squadrismo. Come
accadde alla Spezia il 16 maggio 1921: furono i carabinieri a sparare
sul corteo spontaneo dei giovani socialisti e comunisti in festa per il
successo elettorale. Anche Genova e Savona sembravano zone di difficile
penetrazione. Diversa la situazione in Toscana, la regione in cui il
fascismo raggiunse probabilmente il grado più elevato di violenza e di
crudeltà. Carrara cadde presto in mano ai fascisti, con l’avvallo delle
autorità. L’influenza del fascio toscano si fece sentire forte in quello
spezzino. Sarzana era sempre più isolata. Le prime violenze accaddero
il 12 giugno, con una vittima.
La situazione cominciò a cambiare
anche nel resto della Liguria: il 4 luglio il fascio di Sestri Ponente
assaltò la Camera del Lavoro. Carabinieri e guardie regie assediarono i
sindacalisti e lasciarono che le camicie nere dessero alle fiamme i
locali, per poi continuare le devastazioni in tutta Sestri.
Il 17
luglio le squadre fasciste provenienti da Carrara imperversarono in
Lunigiana e in Val di Magra, devastando e uccidendo, per poi giungere a
Sarzana: quel giorno i carabinieri arrestarono Renato Ricci e undici
squadristi. L’arresto era stato praticamente imposto dalla popolazione
della città. Forse furono gli arditi del popolo a consegnare i fascisti
alle forze dell’ordine.
All’alba del 21 luglio 1921 Sarzana era in
stato d’allarme. Temeva un nuovo assalto in grande stile da parte del
fascismo toscano.
Dopo i fatti del 17 luglio Sarzana aveva reagito.
Lo abbiamo ricordato: era stato costituito, sotto l’impulso del Comune,
un Comitato di difesa proletaria, formato da anarchici, comunisti,
socialisti e repubblicani. Fu una delle tante anomalie della Sarzana del
tempo: anche i socialisti riformisti, come il Sindaco Arnaldo Terzi,
parteciparono a un’iniziativa unitaria e di difesa paramilitare, avente
un segno assolutamente contrastato, nazionalmente, dalla corrente
turatiana. Il Comitato aveva preso accordi con le forze dell’ordine e
aveva mobilitato come suo braccio armato gli arditi del popolo, un
piccolo esercito capeggiato da ex militari, appartenenti alla piccola
borghesia e di cultura dannunziana, i cui fanti erano invece proletari,
giunti anche da Spezia e da Carrara (il rapporto tra i due arditismi non
fu semplice). Il 18 luglio era stato indetto lo sciopero generale,
mentre una delegazione guidata dal vicesindaco si era recata a Roma per
esporre al governo la situazione. Il Presidente del Consiglio Ivanoe
Bonomi, alla presenza dei delegati, aveva dato per telefono disposizioni
al Prefetto di Genova affinché “a qualunque costo i fascisti non
entrassero a Sarzana”
Il progetto di Bonomi era quello di creare un
fronte senza i comunisti e il fascismo più estremo. Per questo doveva
dimostrare di poter governare la violenza fascista. Ma le autorità di
Massa, nella notte tra il 20 e il 21 luglio, non fermarono i fascisti
toscani. Lo fecero, alla Stazione di Sarzana, i carabinieri al comando
del capitano Guido Jurgens, e poi i contadini e i proletari. I morti
furono in tutto sedici. Per due di essi -Maiani e Bisagno- si trattò di
un omicidio macabro, frutto della “logica della folla”.
LE LEZIONI DEI “FATTI DI SARZANA”
I
“Fatti di Sarzana” dimostrarono che il fascismo non era una forza
inarrestabile. Non solo perché senza l’appoggio delle strutture dello
Stato lo squadrismo non avrebbe potuto conquistare molto spazio, ma
anche perché la strada dell’unità antifascista avrebbe potuto
rappresentare una difesa efficace dalla violenza fascista.
Bonomi
inviò a Sarzana l’ispettore generale Vincenzo Trani, che nel suo
rapporto finale del 4 agosto 1921 scrisse che nei fasci “si pratica la
teoria che chiunque non sia con loro forma forza nemica, da doversi
combattere e senza badare ai mezzi, che dalla persecuzione giungono alla
soppressione violenta”. Fu una previsione storica esatta: il fascismo è
squadrismo, la violenza gli è connaturata. Trani aveva ragione anche su
un altro punto: lo Stato liberale generalmente si schierava con i
fascisti. Lo fece anche rimuovendo Trani, come egli stesso aveva capito
sempre nel rapporto del 4 agosto: “Quando il Prefetto di Massa mi
annunziò che il Ministero aveva deciso di inviare il Viceprefetto di
Genova nella zona turbata, e da me da dodici giorni ridotta al rispetto
dell’ordine, per farvi opera di pacificazione, non potei fare a meno di
riconoscere nel cambiamento del Ministero un cambiamento di direttive
pro-movimento fascista”. La sostituzione di Trani fu la fine di ogni
illusione.
Lo stesso Umberto Banchelli, squadrista di Firenze, uno
dei capi della spedizione fascista del 21 luglio a Sarzana, riconobbe,
nelle sue “Memorie di un fascista” del 1922, che “il fascismo non ha
potuto svilupparsi che grazie all’appoggio degli ufficiali, dei
carabinieri e dell’esercito”. A caldo aveva commentato: “le squadre,
troppo abituate a vincere innanzi a un nemico che quasi sempre fuggiva o
debolmente reagiva, non hanno potuto né saputo far fronte”.
Il
fascismo si sviluppò grazie all’impunità garantita dalle autorità e
grazie alla mancata difesa comune delle forze antifasciste. I “Fatti di
Sarzana” dimostrano quindi che quello che non vi fu, in Italia, avrebbe
potuto esserci: Jurgens sparò contro i fascisti, e lo poté fare non solo
perché aveva ricevuto l’ordine da Bonomi ma anche e soprattutto perché
aveva alle spalle l’Amministrazione Comunale, il Comitato di difesa
proletaria, gli arditi del popolo.
Infine: non si può sfuggire a un
esame dell’episodio più crudele, l’uccisione dei fascisti Maiani e
Bisagno. Il fascismo raccontò per anni tante falsità su Sarzana. Un solo
esempio: il Sindaco Terzi, il 28 luglio 1921, scrisse al “Giornale
d’Italia”, a Roma, questo telegramma: “Luigi Barzetti [il giornalista,
NdR] afferma falso. Nessuna danza oscena a Sarzana intorno spoglie
assassinati: nessun brandello cadavere portato trionfo canto Bandiera
rossa. Protesto contro malvagia menzogna, degna coloro che inventarono
sevizie a feriti. Invoco più severa inchiesta persone competenti”. (Il
testo è nell’archivio del Comune di Sarzana). Ma l’omicidio
Maiani-Bisagno fu certamente crudele.
A Sarzana si chiuse un ciclo di
manifestazioni dell’antifascismo, che non ebbero mai più l’intensità
del periodo febbraio-luglio 1921. Colpisce il fatto che, dopo il 21
luglio, le forze sarzanesi furono colte da un lungo silenzio, incapaci
di confrontarsi su quanto accaduto. Il Consiglio Comunale non ne
discusse mai. Pesò anche l’omicidio Maiani - Bisagno, che divise i
sarzanesi e “spezzò l’unità antifascista”, ha detto lo storico Andrea
Ventura nell’interessantissimo convegno “Resistenza ante litteram.
1921-2021 A cent’anni dai ‘Fatti di Sarzana’”, organizzato nei giorni
scorsi da ANPPIA, Archivi della Resistenza, Museo di Fosdinovo e ANPI
Sarzana. Non è in alcun modo possibile mettere sullo stesso piano le due
violenze: nel 1921 quella del fascismo era indirizzata e progettata,
non esisteva invece nessun partito armato della sinistra e nessun
coordinamento centralizzato delle scarse forze armate della sinistra. I
dati delle vittime e dei feriti di quel periodo sono del resto molto
chiari. Così come quelli delle aggressioni. Fu, quella di sinistra,
violenza di difesa. E tuttavia anche la violenza di difesa deve essere
consapevole del suo male intrinseco, come lo fu nella Resistenza, dove
-in generale e salvo eccezioni- il modo di combattere e conquistare il
consenso dei partigiani fu opposto a quello dei fascisti, e non fu mai
all’insegna della facile crudeltà. Quella “crudeltà inconsapevole e
piatta che è la peggior linfa dell’uomo”, diffusa dalla prima guerra
mondiale, di cui scrisse Giaime Pintor nel suo “Doppio Diario.
1936-1943”.
LA MEMORIA DEL FUTURO
L’iniziativa del
Comune di Sarzana e del Comitato Unitario della Resistenza tenutasi in
occasion del centenario era significativamente intitolata “I fatti del
1921. La memoria del futuro”. Lo storico Adriano Prosperi ha scritto
recentemente un libro intitolato “Un tempo senza storia”. E’ il nostro
tempo. I giovani non hanno un disegno di futuro, è qui la radice della
crisi della storia. La domanda che il giovane più di tutti rivolge alla
storia nasce dalla speranza: per capire il suo futuro si volta indietro
per capire da dove viene. Se la speranza muore, al posto della storia
c’è il presente permanente. Tra memoria del passato e speranza di futuro
c’è un nesso fondamentale. Si combatte il disinteresse per la storia
combattendo la malattia della speranza. E’ per questo che dobbiamo
tornare testardamente a raccontare storie di speranze: la storia del
primo antifascismo, la storia della Resistenza, la storia degli anni
Sessanta… E le storie delle donne e degli uomini che le hanno vissute,
cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è
stato. Senza nascondere le ombre. Le storie sono forti se hanno memoria
di tutto il passato, anche delle parti più sgradevoli.
La storia del
primo antifascismo si concluse con la sua disfatta. Con il fascismo si
ritrovò un ordine. La soluzione più facile ma anche la peggiore tra
quelle storicamente possibili: il primo Stato totalitario europeo, al
quale il nazismo direttamente si ispirò.
Secondo lo studioso
francese Jean Pierre Faye, fu il delitto Matteotti a preparare la strada
per i sei milioni di ebrei sterminati, come tante altre vittime, nei
campi di concentramento nazisti. L’accostamento può sembrare esagerato,
ma va tenuto comunque presente per comprendere la natura originaria del
fascismo italiano e il significato che il suo avvento al potere ha avuto
nella storia europea fra le due guerre, in quanto inizio di un inedito
esperimento totalitario.
Tuttavia le identità politiche in conflitto,
a Sarzana come in molte altre zone, non scomparvero affatto, nonostante
la dittatura. La loro penetrazione di massa era profonda.
L’antifascismo visse e combatté sempre, anche nei momenti più duri. La
Resistenza fu anche guerra civile in continuità con la radicalità dei
conflitti degli anni 1919-1922. Memore della sconfitta, l’antifascismo
seppe però costruire una vasta unità popolare, che ci ha dato la
democrazia, la Repubblica e la Costituzione, la Carta che ha consentito a
quella democrazia di vivere per oltre settant’anni e di reagire a crisi
anche profondissime. E’ la nostra risorsa più vitale, una memoria mai
spenta. Quali altri valori abbiamo su cui unire il popolo italiano, se
non quelli che ci hanno ispirato nella lotta di Liberazione? L’unica
alternativa è una repubblica priva di ogni elemento identitario,
complesso di procedure gestite da una classe politica sempre più
“castale”: una prospettiva inaccettabile, tanto più nella situazione
difficile in cui ci troviamo. Certo, l’antifascismo, dopo il 1921-1922,
maturò e si trasformò. Ma è giusto riconoscere che in quei disperati
giorni di Sarzana, prima della sconfitta, furono poste le premesse per
la lunga lotta che seguì.