MA PERCHE' SIAMO ANCORA FASCISTI? 2020 Francesco Filippi

 


  Dalle CONCLUSIONI DEL LIBRO:"Ma perchè siamo ancora fascisti?" di Francesco Filippi

In queste pagine, che si sono concentrate sul modo in cui la società italiana ha trattato il fascismo e la percezione della sua storia, c’è un grande assente: si tratta del fascismo postmussoliniano o del cosiddetto neofascismo, vale a dire le compagini che a vario titolo si sono fatte carico direttamente, nel tempo, dell’eredità del fascismo italiano. I gruppi, anche violenti, che fin dalla fine della guerra hanno cercato di conquistarsi legittimità e agibilità politica attraverso un diretto riferimento alla dittatura, insanguinando varie pagine della storia di questo paese.

Non si tratta di una dimenticanza, piuttosto di una presa d’atto: all’interno del panorama sociale italiano c’è stata, c’è e probabilmente ci sarà ancora per molto tempo una componente più o meno dichiaratamente fascista. E questo indipendentemente dalle analisi storiografiche o dai quadri storici e politici di riferimento. Ancora oggi, pur con la consapevolezza delle atrocità commesse dal regime, una parte, piccola ma presente della nostra società, continua a ritenere il fascismo una risposta valida ai problemi del paese e alcuni sono addirittura disposti a propagare queste posizioni in maniera violenta. Non è a questa fetta di italiani che si è rivolta la presente indagine. Questo tipo di pulsioni, presenti in varie forme in tutte le democrazie avanzate, più che l’oggetto per uno studio della storia della mentalità sono la rilevazione del fatto che, nonostante tutto, l’ideale di democrazia e libertà espresso da quello che noi chiamiamo Occidente non è un valore universale.

Questo libro ha provato a occuparsi di un’altra fetta della nostra società, ben più grande: quella che, pur aderendo agli ideali democratici nati dalla Resistenza e partecipando alla vita del paese, ha sviluppato nei confronti del passato totalitario dell’Italia un giudizio blando, neutro o di indifferenza. Quella che, in altri contesti e con un’espressione un po’ abusata, si potrebbe definire la “zona grigia” della coscienza storica del nostro paese.

Per una fetta consistente di italiani, oggi, le vicende drammatiche del Ventennio e del secondo conflitto mondiale fanno parte di un passato poco conosciuto, di cui non si sente responsabilità o addirittura da rivalutare, e questo libro ha cercato di inquadrare questo aspetto provando a rispondere alla domanda del perché “siamo ancora fascisti” anche se non pensiamo di esserlo.

Come si è visto, l’atteggiamento da parte dell’opinione pubblica nei confronti del fascismo si è molto presto cristallizzato in una serie di stereotipi e schemi di giudizio semplici e netti, la cui efficacia è dimostrata dal fatto che ancora oggi sono riconoscibili e accettati: se ora (2020) si proponesse la visione di uno dei film che parlano di fascismo e di italiani fascisti a una qualsiasi classe dell’ultimo anno delle superiori, pochissimi studenti avrebbero difficoltà a riconoscere i personaggi rappresentati e il loro significato. Da Roma città aperta di Rossellini a Mediterraneo di Salvatores, passando per Il Federale con Ugo Tognazzi, i “tipi” ritratti nei film sarebbero facilmente riconosciuti e accettati, quasi si trattasse di una “proprietà intellettuale” degli italiani. La doppiezza, la codardia, l’ossequio del potere, accanto all’umanità, il coraggio disperato, la bontà con cui si tratteggiano gli italiani in questi film sarebbero tranquillamente accettati come parte della rappresentazione degli italiani stessi. Sarebbero vissuti come “veri”. Sfuggirebbero da questo consenso, forse, solo i ragazzi italiani che hanno origini familiari radicate in altri paesi.

Questo racconto pubblico di sé, ancora così diffuso, ha un innegabile vantaggio: riesce a tenere insieme tutti gli aspetti complessi della storia italiana del Novecento, nonostante questa passi attraverso una serie di sconvolgimenti epocali. Inquadrare presunti difetti o pregi del popolo italiano ha permesso di far convivere nello stesso racconto pubblico fatti storici tra loro molto diversi, come i volontari fascisti in Spagna e l’antifascismo internazionale, la collaborazione attiva con le deportazioni naziste e la Resistenza. Dopo la fine della guerra, anch’essa di difficile analisi perché vinta e persa contemporaneamente, la gestione della memoria pubblica è passata attraverso una semplificazione estrema della memoria e una generale tendenza a porre l’accento sulla passività della società italiana nei confronti della propria storia. Una passività che ha garantito una generale deresponsabilizzazione. Una storia subita, non agita. Per questo motivo ha successo la visione crociana del fascismo come malattia passeggera e non quella gramsciana e gobettiana che chiamano direttamente in causa gli italiani e il loro rapporto col potere. Per questo motivo la memoria del paese si concentra con maggiore attenzione sul biennio di guerra civile 1943-1945, sorvolando per lo più sui vent’anni precedenti.

Si tratta di un racconto pubblico efficace, senza dubbio, ma così semplificato da non riuscire a trovare posto per gli aspetti che più mettono in stress il modello degli italiani “buoni e passivi”, tanto che alcuni episodi della nostra storia semplicemente scompaiono dalla memoria pubblica: il colonialismo imperialista e brutale in Africa o gli anni di sanguinaria occupazione nei Balcani.

Questa visione monolitica del passato italiano è stata per molto tempo funzionale alla costruzione di un’immagine precisa del nostro paese, che dopo la fine della seconda guerra mondiale rientra nel consesso delle nazioni occidentali come operoso e pacifico stato in cerca di una propria posizione nel mondo attraverso la crescita economica e gli strumenti del soft power.

Seguendo questa prospettiva, appare abbastanza comprensibile che la ricostruzione della memoria pubblica italiana sia paradossalmente passata molto meno attraverso le analisi e i dibattiti storiografici, che pure negli anni hanno infiammato le accademie, e molto più attraverso altre forme di racconto. La storiografia italiana è la più attenta, approfondita e varia forma di studio del fascismo disponibile, ma a volte questo racconto, basato sui fatti storici, si allontana troppo dalla narrazione collettiva e tematizza in maniera negativa episodi che la memoria pubblica aveva già inserito nel racconto positivo della storia del paese. Per questo la storiografia italiana sul fascismo entra nel dibattito pubblico solo in determinati momenti e solo come argomento di diatriba politica, anziché essere uno degli strumenti su cui basare qualche tipo di identità storica. In Italia si può dire che della storia del Novecento si è fatto molto più spesso un uso politico, e contingente, che un uso pubblico, di lunga durata e si direbbe sociale. La scuola ha cercato di contribuire alla diffusione di una memoria che derivava dall’analisi storica, ma resistenze interne, organici e didattiche non adeguati e freni logistici, come l’assoluta mancanza di tempo per affrontare le tematiche, hanno reso accidentato il percorso della diffusione capillare della coscienza del passato fascista.

Sono stati altri i mezzi attraverso cui si è portato avanti il modello di lettura del passato: un peso preponderante lo ha avuto come si è visto il cinema, arte in grado di assumersi il ruolo di diffondere e consolidare modelli interpretativi in un paese ancora a bassa scolarizzazione e con sacche di analfabetismo, ma in cui la diffusione delle sale di proiezione dopo la guerra si espande. Un ruolo fondamentale per costruire il sistema di valori comune all’intero paese e che poi nel tempo viene assunto, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta, dalla televisione. L’efficacia e la semplicità del modello rappresentativo degli italiani buoni, passivi e sostanzialmente afascisti per decenni è stato riportato con fedeltà dai prodotti cinematografici e televisivi, contribuendo a cristallizzarlo non come un’interpretazione, ma come la realtà. Anche per questo motivo, nel momento in cui la fine della cosiddetta prima repubblica ha liberato dalla pressione della guerra fredda il dibattito sui cinquant’anni precedenti, una parte della discussione si è spostata, mettendo sotto analisi non il rapporto tra gli italiani e il fascismo – che è rimasto un oggetto storiografico oscuro e lontano ai più –, ma la Resistenza stessa, che essendo l’unico vero fatto storico messo in evidenza negli anni è stata vista come una sorta di narrativa imposta al paese, un paradigma che ha oscurato presunte realtà storiche differenti. Processando, paradossalmente, uno dei pochi esempi di reale e solido antifascismo abbastanza diffuso espresso dalla società italiana, si è impedita la possibilità di avere una memoria solida su temi storicamente accertati, livellando e mettendo tutto, fascismo e antifascismo, sullo stesso piano. Oggi siamo dunque nella situazione in cui accanto a un residuale, ma persistente, gruppo antidemocratico e parafascista che esalta senza mezzi termini il passato totalitario dell’Italia, abbiamo una società che per la gran parte non ha avuto la possibilità di accedere a racconti pubblici antifascisti diffusi. A parte l’ormai stanca figura dell’«italiano brava gente» non c’è stato un momento di riflessione pubblica esteso all’insieme dei fatti storici, al ruolo degli italiani nelle vicende drammatiche di prima e durante la guerra. Questo ha creato una sacca di indifferenza e neutralità che alla prova dei fatti mostra il fascismo come uno dei tanti avvenimenti della storia d’Italia.

La risposta alla provocatoria domanda “ma perché siamo ancora fascisti?” passa proprio attraverso lo sviluppo di un racconto pubblico che è stato prima autoassolutorio e poi relativizzante: italiani mai convintamente fascisti prima; italiani che hanno combattuto per degli ideali, siano essi fascisti o antifascisti, poi. Il tutto proiettato in un passato che, allontanandosi sempre più, appiattisce e uniforma ogni cosa.

Perché quindi siamo ancora fascisti o, meglio, perché non siamo convintamente antifascisti? Perché in questi anni, nel tentativo di mantenere pulita la memoria del paese, non abbiamo affrontato con determinazione i crimini che il fascismo ha commesso anche grazie alla connivenza degli italiani e quindi oggi, per molti, dato che non si conoscono i delitti del fascismo, pare quasi che il fascismo di delitti non ne abbia commessi.

Perché in questi anni non siamo riusciti ad affrontare con decisione e chiarezza i demoni di un passato che abbiamo troppo velocemente coperto ma non cancellato, togliendoci la possibilità di accumulare le conoscenze e le attenzioni necessarie a impedire che i fenomeni di erosione democratica che aprono la strada ai regimi autoritari vengano subito riconosciuti e neutralizzati.

Perché, infine, una parte minima della società italiana non ha mai voluto essere altro, perché un’altra parte non ha mai imparato a essere altro, e infine perché una parte della nostra società, probabilmente la più consistente, non si è mai nemmeno posta seriamente la domanda, rimanendo indifferente.