21 LUGLIO 1921: GLI ARDITI DEL POPOLO A VITERBO E SARZANA

 

 Il capitolo Azione! è tratto dalla Tesi di Laurea di  Ivan Panebianco dal  titolo: 

Gli Arditi. Dalla guerra di trincea alla guerra fratricida (1917 – 1921)

 

discussa nella Facoltà di Lettere e Filosofia all'Università degli Studi di Pisa nell'anno accademico 2007-2008.

 

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Azione! 

 

Gli eventi si susseguono molto rapidamente e luglio è un mese ricco di scontri oltreché di proclami, comizi e manifestazioni. La violenza dei fascisti si propaga molto velocemente raggiungendo i più piccoli borghi italiani. Lo stesso Mussolini è “preoccupato” per questo crescendo di violenza incontrollata, infatti scrive il 19 luglio su “Il Popolo d’Italia”:

 

Ammetto apertamente che un senso di rivolta si sia determinato nel mio spirito davanti a certe eccessività delle ultime spedizioni fasciste ed aggiungo che il mese di luglio 1921 è stato infausto nella storia del fascismo italiano[1].

 

Gli Arditi del Popolo sono i primi a scontrarsi con le camicie nere. Gli episodi più significativi si verificano a ridosso dei comizi e spesso in contemporanea con l’uscita dei manifesti antifascisti. 

 

Viterbo

 

L’11 luglio 1921 a Viterbo le camicie nere, dopo aver inaugurato i gagliardetti della loro sezione locale, tentano un consueto “fuori programma” che però viene evitato dalla forza pubblica. Ritornati alla sede del Fascio costituiscono una squadra, sottoforma di corteo, composta da circa trecento fascisti che si dirige verso i giardini pubblici. 

 

Qui il neoparlamentare Bottai, esprime viva simpatia per l’operato dei fascisti orvietani, mentre la cittadinanza allarmata – senza distinzione di parte – organizza la resistenza per difendersi da ulteriori attacchi. Nel pomeriggio dopo aver banchettato al Gran d’Hotel e prima di ripartire per le località di provenienza, i fascisti vogliono nuovamente “dare una lezione” a quella popolazione a loro ostile. Sparando all’impazzata per le vie cittadine feriscono mortalmente, mentre usciva dalla sua abitazione, Tommaso pesci, un contadino non appartenente a nessun partito politico. Il pomeriggio seguente si tiene in piazza Municipio un comizio di protesta al quale prendono parte migliaia di persone. […] La mattina successiva il capostazione di Porta Fiorentina dà l’annuncio che una squadra dei temutissimi fascisti perugini, dopo aver “scaldato le mani” allo scalo ferroviario di Orte, si appresta ad entrare in città. La notizia si diffonde con una rapidità fulminea e altrettanto rapidamente, al suono del campanone municipale, la cittadinanza si organizza per respingere l’attacco. Gli Arditi del popolo sono ovviamente il corpo d’élite, ma è l’intera popolazione che è in armi. Sopra le mura delle città, sulle terrazze, sui tetti, ci sono gruppi di cittadini che montano di guardia. Gli squadristi vengono bloccati dalle forze dell’ordine, ma il clima di tensione provoca un incidente mortale. Contro un’automobile di nobili inglesi, scambiata per una vettura degli squadristi, viene infatti aperto il fuoco da cinque arditi del popolo: rimangono così feriti tutti i passeggeri, mentre viene ucciso un giovane conte. Sul piano della bilancia, ovviamente, l’uccisione del nobile rampollo inglese pesa infinitamente di più rispetto a quella del contadino Pesci. E, benché i cinque arditi del popolo che aprirono il fuoco contro la vettura vengano – rei confessi – tratti in arresto, non solo la stampa reazionaria e borghese, ma lo stesso sottoprefetto viterbese afferma che […] è evidente “che l’orribile fatto è principalmente se non esclusivamente dovuto all’azione delittuosa degli arditi del popolo”. Al di là delle inevitabili speculazioni contro l’organizzazione ardito-popolare, il segnale giunto da Viterbo è chiaro a tutti. Il fatto saliente di quelle giornate è stato la capacità e la prontezza della cittadinanza di stringersi attorno ad una struttura militare sorta dal popolo per respingere l’assalto squadristico, anche se non vi è stato alcun “contatto” tra fascisti e popolazione in armi, le giornate di Viterbo sono la premessa degli avvenimenti di Sarzana[2].

 

Anche lo stesso Ispettore generale di Pubblica Sicurezza afferma che «fecero la loro comparsa degli improvvisati arditi del popolo completamente disarmati, organizzati nella giornata dall’ex tenente Busatti [ex tenente di fanteria], persona stimata per serietà di carattere e non iscritto a nessun partito politico»[3]. 

 

 

 Sarzana

 

Il 21 luglio 1921 circa seicento squadristi di Firenze, Pisa, Lucca e Viareggio, capitanati da Amerigo Dumini (l’assassino di Mattetotti) e da Tullio Tamburini (fondatore del fascio fiorentino), convergono su Sarzana per imporre la liberazione di 10 fascisti carraresi, arrestati giorni prima. Ad attenderli ci sono però gli Arditi del Popolo (diretti dai tenenti di complemento in congedo Silvio Delfini e Papiro Isopo) assieme ad una cittadinanza pronta ad affrontare lo scontro, caso assai raro nei due anni di guerra civile, anche i carabinieri. 

 

 

Un ruvido colloquio tra Delfini (Bruno Cattaneo), comandante degli Arditi del Popolo -a sinistra- e Giuliani (Bruno Corazzari), Capo del Comitato di Difesa di Sarzana-a destra- . Dal film "Nella città perduta di Sarzana", 1980 Regia Luigi Faccini

 

Sono proprio questi ultimi ad avere il primo impatto con le squadre fasciste toscane e di Lunigiana. Il capitano dei carabinieri di Sarzana Guido Juergens cerca di spiegare agli squadristi che un eventuale marcia all’interno dell’abitato si trasformerebbe in una trappola. Ma mentre Jurgens parla con Dumini, i fascisti aprono il fuoco contro il cordone (uccidendo un caporale e ferendo un carabiniere); i militi rispondono allora al fuoco. Alcuni fascisti vengono colpiti a morte, altri rimangono feriti. Nella fuga  (una vera e propria rotta) gli squadristi vengono inseguiti dagli Arditi del Popolo e dalla popolazione, la quale non esita a farsi giustizia delle angherie subite sino ad allora. Il bilancio della spedizione è, per gli assalitori, assai negativo: diciotto fascisti rimangono uccisi e una trentina feriti. Dopo i “fatti” di Sarzana vari Arditi del Popolo vengono comunque tratti in arresto e denunciati all’autorità giudiziaria come responsabili “delle inaudite stragi con torture che hanno compiuto a danno dei fascisti”. 

  

Sarzana segna una battuta d’arresto per il movimento fascista; nonostante ciò si determinano due differenti reazioni in rapporto ai filoni che lo costituiscono: il filone “urbano” e quello “agrario” [4], o meglio quello “di facciata” e quello più propriamente violento. Il primo, spaventato dalla reazione popolare organizzata dagli Arditi del Popolo, decide di spostarsi su posizioni più moderate e meno violente, raggiungendo magari una tregua o un patto con gli antifascisti. La seconda anima interpreta “l’eccidio di Sarzana” come il salto di qualità necessario per imporre il fascismo ad una popolazione sovversiva, ma anche ad uno Stato debole. 

In seguito con il Patto di Pacificazione[5] – 3 agosto 1921 - Mussolini riesce a combinare i due filoni del movimento fascista: firma il Patto, ma allo stesso tempo lascia libera iniziativa agli squadristi agrari più violenti. Come nel 1919 i Fasci di Combattimento non cambiano la loro strategia: da una parte politici moderati che appoggiano apertamente il fascismo e dall’altra i ras grezzi, violenti che mostrano il reale volto del movimento: due facce della stessa medaglia. 

 

«Appena due giorni dopo la conclusione del patto di

 pacificazione si contano nuovi morti nel

Cremonese, in Emilia, a Firenze. Per tutto il mese di agosto, per quello di settembre, salvo una piccola parentesi in occasione del III congresso nazionale fascista (durante il quale – per altro – si verificano violenti scontri tra fascisti e arditi del popolo), per il resto del 1921, gli squadristi in camicia nera lasciano dietro di loro una lunga lista di lutti e distruzione»[6] fino a compiere dei veri e propri massacri il 24 luglio a Roccastrada (Gr)369.   

 

I fatti di Viterbo e di Sarzana sono i primi scontri che vedono organicamente contrapposti da una parte gli squadristi e dall’altra una popolazione organizzata dagli Arditi del Popolo. Sono solo alcuni dei più significativi episodi della tremenda guerriglia civile che insanguina l’Italia nel dopoguerra. Gli eventi e le ricostruzioni storiche dei fatti di Viterbo, Sarzana e quelli successivi di Roma – novembre 1921 – e di Parma – novembre 1922 – sono ormai conosciuti e non credo sia necessario – ai fini di questa tesi – il semplice racconto dei fatti; più utile per un’analisi sociopolitica, ma anche più interessante dal punto di vista militare sono, a mio parere, gli elementi che hanno determinato la vittoria dell’antifascismo organizzato e cosciente in numerosi scontri contro i nerocamiciati, in particolare per il 1921 ed il 1922. Sulla base degli studi precedenti, di qualsiasi tendenza essi siano[7], si può affermare che la risposta armata agli attacchi squadristi risulta positiva, cioè riesce a “cacciar l’invasore”, nelle città in cui la popolazione, o parte di essa, si rende disponibile e collabora attivamente con le “avanguardie di difesa popolare” per distribuire viveri, armi, per combattere, per comunicare gli ordini di difesa, per costruire barricate, per fare le vedette, per dare l’allarme o in qualsiasi altro modo possa un cittadino difendere il proprio quartiere da attacchi esterni. Si determina il clima adatto per questa unione di forze - popolo ed avanguardie – nei territori caratterizzati da un substrato sovversivo, ed anche se presente in molte città italiane non sempre questo substrato riesce a coniugarsi con le squadre degli Arditi del Popolo e questo per numerose motivazioni, tra cui la repressione incessante del governo su anarchici, comunisti socialisti, repubblicani ed Arditi del Popolo in particolare; l’azione sistematica di terrore degli squadristi; la mancata coordinazione tra i vari gruppi di Arditi del Popolo; la mancanza di un preciso programma politico dell’arditismo; l’appoggio della magistratura e delle forze di Pubblica Sicurezza assicurato al movimento fascista, nonché la condotta dei politici italiani ai quali è prestato servizio dalle camicie nere come strumento di repressione interna. Per tutto questo e per altri fattori, che cambiano da città a città, i casi di vittoria in risposta agli assalti squadristi restano isolati sul territorio nazionale. 

Livorno, in seguito ai recenti studi su scala regionale[8], è indicato come un “case study” rispetto all’esistenza di un substrato sovversivo consistente e diffuso. Scrive Mauro Stampacchia nella interessante introduzione al libro di Abse: 

 

 [Livorno] viene indicata come l’esempio più eclatante della incapacità del fascismo ad aprire brecce all’interno del nucleo “forte” della classe operaia toscana. […]  Nella quale un nucleo piccolo ma compatto di proletariato industriale di grande fabbrica si è andato formando in stretto ed inscindibile rapporto con altri ceti operai e dove il rapporto tra le tendenze della vita politica, sindacale, sociale di questi ceti subalterni […] risulta di un tipo del tutto peculiare. Socialisti (riformisti e massimalisti), anarchici o anarco-sindacalisti, repubblicani, e poi ancora comunisti del nuovo partito che proprio a Livorno nasce – pur divisi e in polemica tra loro, secondo le linee della politica nazionale – fanno però tutti riferimento ad un antagonismo, staremmo quasi per dire prima sociale e di comunità che politico, tipico di tutta la parte “sovversiva” della città. Prima sociale e di comunità, perché dietro la narrazione dei fatti, di necessità evenementiel, si intravede il retroterra di una mentalità e di un ambiente popolari, universo sociale nel quale matura, si esprime, trova propri referenti e solidarietà, appunto, il “sovversivismo”[9].

 

Quando la popolazione, organizzata dagli Arditi del Popolo, assume coscientemente e responsabilmente i propri compiti, le camicie nere, costrette dalla risposta armata antifascista, vengono fieramente respinte, anche se purtroppo il più delle volte sfogano l’orgoglio ferito dalle brucianti sconfitte nei borghi e nei paesi sulla via del ritorno, come nel caso di Parma[10]. 

Sorge spontaneo domandarsi perché gli Arditi del Popolo non siano stati in grado di respingere il nemico fascista. In primis per l’attività repressiva dello Stato e della magistratura su tutti i sovversivi in genere: Arditi del Popolo, Arditi Rossi, comunisti, anarchici, socialisti, repubblicani374. «Infatti fin dall’inizio l’ostacolo più rilevante che l’Associazione [incontra] nel suo agire [è] quello della legalità statale, tutelata dal Ministero dell’Interno preoccupato di quello che vedeva come un “movimento rivoluzionario per abbattere le istituzioni ed impadronirsi del potere»[11]. Interessante a proposito è il telegramma che la prefettura di Torino invia ad Ivanoe Bonomi il 23 agosto 1921:

 

Riunioni arditi popolo vennero qui vietate dopo che autorità giudiziaria […] ha emesso loro carichi mandati cattura, convenendo essere gli arditi del popolo una associazione criminosa col fine di minare le vigenti istituzioni politiche e sociali, mentre tale estremo del fine criminoso caratterizzante il reato, non esiste nel fascio di combattimento, che tende al consolidamento della compagine nazionale[12].

 

Repressione messa in atto dai vari corpi militari che oltre a reprimere, il più delle volte aiutano con tutti i mezzi a disposizione le camicie nere, proprio per la specifica funzione che aveva lo squadrismo e che è stata descritta nel terzo capitolo. Scrive Vivarelli nel suo “Bonomi e il fascismo”:

 

Nell’ottobre 1920, quelle autorità militari a cui si rivolgeva il ministro della guerra […] avevano infatti già dato prova di una non comune capacità di iniziativa. […] a partire dal luglio 1920, in tutta la Venezia Giulia l’azione dei fasci si era andata svolgendo in perfetto accordo con le autorità militari; e nelle puglie (come gli stesi «appunti» Bonomi confermano) alcuni fasci erano sorti per diretta iniziativa del comando di Corpo d’armata di Bari[13].

 

Luigi Fabbri, contemporaneo all’ascesa del fascismo, riguardo l’azione statale si esprime in questi termini:

 

È l’opera del governo […] che merita una speciale menzione. Ogni tanto, fin nei villaggi più remoti, si annunciano arresti numerosi di pretesi « arditi del popolo ». In realtà con questo pretesto si sciolgono, arrestando i radunati, delle semplici adunanze dei soliti circoli socialisti, anarchici o semplicemente operai; e s’imbastiscono processi per complotto contro la sicurezza dello Stato. In seguito dopo molti mesi, l’accusa sfumerà; ma i mesi di carcere scontati innocentemente non potranno essere annullati, e nel frattempo nei vari centri l’autorità con questo pretesto sarà riuscita ad impedire ogni attività d’opposizione al governo anche la più legale. Procedimento doppiamente illegale, ingiusto e infame: 1º perché in realtà l’accusa di arditismo è quasi sempre immaginaria; 2º perché anche se corrispondesse a realtà, non costituirebbe reato alcuno, poiché nessuna legge proibisce di associarsi allo scopo di difendersi contro le aggressioni di chicchessia. Non è certo il nome dato a una società che basta a farla diventare illegale; occorre che essa di fatto si metta sulla via della illegalità con atti e mezzi determinati. […] E mi astengo dal fare alcun paragone coi « Fasci di combattimento » , formazioni militari vere e proprie, con propri quadri ed ufficiali, che in ogni città percorrono le vie in ordine militaresco, molto spesso con armi mille volte loro trovate in dosso, e che inquadrati ed ordinati si sono recati alla vista di tutti, in camions o a piedi, a fare le loro spedizioni punitive, a bastonare, distruggere, incendiare ed uccidere. […] Si arrestano, semplicemente, dei liberi cittadini solo perché per le loro idee politiche si presume, si sospetta che si radunino con la intenzione di costituire gli « arditi del popolo ». E gli arresti, manco a dirlo, vengono convalidati dalla magistratura[14].

  



[1] Francescangeli Eros, Arditi…, nota 115, p. 82.

[2] Francescangeli Eros, Arditi…, pp. 74, 75. Ho utilizzato il resoconto di Francescangeli, perché tra quelli disponibile, è il più neutro sia sul piano linguistico che sul piano della narrazione.

[3] ACS, PS 1921, cat. G1, b. 109 in Rossi Marco, Arditi..., p. 112.

[4] Li definisce così Francescangeli.

[5] Il patto di pacificazione viene firmato soprattutto per la volontà dell’ANC, la quale spera e tenta di calmare gli animi attraverso questo accordo. I firmatari dell’accordo sono: Benito Mussolini, Cesare Maria De Vecchi, Giovanni Giurati, Cesare Rossi, Umberto Pasella, Gaetano Poverelli e Nicola Sansanelli per il Consiglio nazionale dei Fasci di

Combattimento Italiani e per il Gruppo parlamentare Fascista; Giovanni Bacci, Emilio Zannerini per la Direzione del PSI, Elia Musatti e Oddino Morgari; Gino Baldesi, Alessandro Galli ed Ernesto Caporali per la CGdL. L’analisi del patto di pacificazione non viene fatta in questo lavoro, dato che il centro di interesse non è la cronaca degli avvenimenti durante il 1921, ma il rapporto tra Arditi del Popolo, coscienza antifascista e arditismo nel dopoguerra. 

[6] Francescangeli Eros, Arditi…, pp. 118, 119. 369

 «Nel luglio del 1921 i fascisti avevano inviato al sindaco una lettera in cui si comandava di dare le dimissioni. Il primo cittadino di Roccastrada comunica al prefetto l'accaduto e ottiene da questo sicurezze e rinforzi. Nonostante questo, due camion di fascisti con a capo Dino Castellani, segretario del Fascio di Grosseto, giunsero a Roccastrada all'alba del 24 luglio 1921, una mattina di domenica durante la quale molte persone si trovavano per strada recandosi nelle campagne limitrofe. I fascisti scesero dai mezzi e bastonarono chiunque incontrarono, devastarono le case dei "rossi", un caffè, un'orologeria, per poi, a missione compiuta, abbandonare il paese fra inni e bandiere. Appena fuori però un colpo di moschetto uccise Ivo Saletti, uno dei fascisti che aveva partecipato all'incursione; gridarono all'imboscata (anche se ormai è chiaro che il colpo di fucile fosse partito dal primo camion uccidendo il fascista che si trovava nel secondo) e prontamente fecero dietro front. La parola d'ordine fu uno di noi dieci di loro e così accadde. Se questo fu l'episodio scatenante della seconda incursione in paese, le reali cause che portarono a tale raptus di violenza, si fanno risalire alle note radici socialiste del comune di Roccastrada, che lo rendevano del tutto inadatto al fiorire della reazione fascista. La necessità di questo passo indietro fino all'entrata dei fascisti a Roccastrada, risiede, quindi, nel fatto che, in altro modo, non si potrebbe comprendere l'insediamento e il radicamento della lotta partigiana, che due decenni dopo caratterizzò la zona di azione della Brigata Gramsci», (http//www.comune.roccastrada.gr.it/) 

[7] Ovviamente non gli studi di stampo fascista e reazionario che, o non hanno “raccontato” le sconfitte, oppure le hanno minimizzate non considerandole degne di studio.

[8] Gli studi a cui accenno sono quelli dello storico M. Snowden e P. Nello, oltre che quello di Abse.

[9] Abse Tobias, ‘Sovversivi’ e fascisti a Livorno (1918-1922). La lotta politica e sociale in una città industriale ella Toscana, trad. e cura di Mauro Stampacchia, Labronica, Livorno 1990, pp. III, IV.

[10] Durante il ritorno a casa gli squadristi si danno alla “pazza gioia” sparando, accoltellando, incendiando e malmenando chiunque venisse trovato nei paesi vicini Parma, ciò a dimostrazione della vigliaccheria insita nel movimento fascista, che capace di vincere in dieci contro uno, se sconfitto riversa il proprio istinto violento contro il nemico di turno, o anche di passaggio. Infatti Balbo nel suo diario afferma che Parma è, nonostante gli episodi verificatesi, una “vittoria conseguita”. 374

 Riguardo la collusione delle istituzioni e delle autorità statali e militari con i Fasci di Combattimento italiani sono di comune accordo numerosi storici tra cui: Francescangeli, Cordova, Rossi, Di Lembo, Renzo Vanni, Vivarelli, Abse, Bruna Antonelli, Balsamini, Rochat, Salaris, Berti, Furlotti, Fuschini, Sacchetti, Tognarini.

[11] Rossi Marco, Arditi…, pp. 106, 107.

[12] ACS, Bonomi, 1921-1922, b. 1, fasc. 7, in Francescangeli Eros, Arditi…, nota 13, p. 113.

[13] Roberto Vivarelli, Bonomi e il fascismo, pp. 150, 151.

[14] Fabbri Luigi, La controrivoluzione…, pp. 41, 42.

 

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